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Sindrome da fatica cronica – Anche a Stanford la riconoscono come oggetto di ricerca e di congressi. E in Italia?

Anche la Stanford University di Palo Alto in California, la culla della Silicon Valley dove sono nati Google e Facebook, e una delle università più importanti a livello mondiale, ha riconosciuto ufficialmente questa malattia che colpisce più di un milione di persone negli Stati Uniti, e ha organizzato un convegno sulla CFS a metà di agosto 2017 per studiare gli aspetti biologici e terapeutici di questa sindrome

28 SET – All’inizio degli anni novanta descrissi per la prima volta in Italia un numero consistente di pazienti con Sindrome da Fatica Cronica (CFS) e riportai 205 pazienti sulla rivista scientifica Archives of Internal Medicine già nel 1993 (Tirelli U et al, Arch Intern Med 1993;153:116-7).

Da allora migliaia di pazienti sono stati diagnosticati ad oggi dal mio gruppo ad Aviano e alla Clinica MEDE di Sacile, ma anche tra la classe medica molto scetticismo sulla effettiva natura della malattia è persistito fino ad oggi. Ora anche la Stanford University di Palo Alto in California, la culla della Silicon Valley dove sono nati Google e Facebook, e una delle università più importanti a livello mondiale, ha riconosciuto ufficialmente questa malattia che colpisce più di un milione di persone negli Stati Uniti, e ha organizzato un convegno sulla CFS a metà di agosto 2017 per studiare gli aspetti biologici e terapeutici di questa sindrome.

Il convegno è stato organizzato dal prof. Ron Davis, professore di Immunologia e Microbiologia dell’Università di Stanford e direttore dello Stanford Institute for Immunity Transplantation and Infection ed è stato seguito via internet dalla dr.ssa Giada Da Ros presidente dell’Associazione Italiana per la Sindrome da Stanchezza Cronica.

Molto è stato fatto in Italia per la diffusione dell’informazione su questa patologia e senza dubbio oggi molte istituzioni e medici più spesso che nel passato, sospettano o fanno diagnosi di questa patologia nell’ambito della loro attività medica. Peraltro, a livello normativo e a livello ufficiale, la patologia rimane ancora frequentemente un oggetto sconosciuto e i pazienti hanno ovviamente grandi difficoltà non solo nel fare riconoscere la propria patologia ma nel farsi curare o accettare dai medici che vedono. Recentemente, nell’ambito di un progetto strategico sulla medicina di genere del Ministero della Salute, l’Age.na.s (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) ha presentato delle linee guida sulla CFS, messe a punto da diversi esperti, tra cui il sottoscritto.

Alla Stanford University è stata riportata un’associazione tra la CFS ed alcuni polimorfismi a livello genetico, una specifica attivazione delle cellule T, un’alterazione della produzione di cortisolo più basso al mattino e con livelli più elevati del normale a mano a mano che passa il tempo, alterazioni del microbiota intestinale. L’espressione genica ha una forte similarità con quella della sindrome infiammatoria sistemica.

Il prof. Josè Montoya, professore di Malattie Infettive all’Università di Stanford, ha riportato i dati sul PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) del 31 luglio scorso, una delle riviste di medicina più autorevoli, che hanno valutato i livelli nel sangue di 561 citochine in 192 pazienti con CFS e di 392 controlli sani con un risultato di un trend lineare verso l’alto di 17 citochine relative alla correlazione con la severità della CFS. È importante sottolineare che le 17 citochine correlate alla severità contribuiscono probabilmente a molti dei sintomi di cui hanno esperienza i pazienti, dimostrando una forte componente del sistema immunitario nella malattia.

Questi dati confermano che l’eziologia della CFS potrebbe essere una risposta esagerata del sistema immunitario a virus, batteri e funghi come fa pensare il fatto che la malattia spesso insorge dopo un’infezione, come da noi riportato per primi già nel 1994 (Tirelli U et al, Immunological abnormalities in patients with Chronic Fatigue Syndrome. Scand J Immunol 40: 601-608, 1994).

La CFS colpisce soprattutto i giovani con un interessamento prevalente a carico del sesso femminile e lascia spesso per molti anni una situazione così invalidante fisicamente che impedisce ai pazienti di lavorare o a studiare.

All’Istituto Nazionale Tumori di Aviano sono stati compiuti una serie di studi, tra i quali la valutazione delle alterazioni immunologiche nei pazienti con CFS, la valutazione delle alterazioni cerebrali con una sofisticata metodologia di diagnosi radiologica, la PET, l’eventuale rapporto della CFS con i tumori maligni. Sono allo studio farmaci, in particolare immunoglobuline ad alte dosi, magnesio, acetilcarnitina, antivirali come amantadina e acyclovir ed immunomodulatori come timopentina.

Purtroppo per ora non vi è alcun farmaco in grado di guarire definitivamente la malattia, anche se spesso i pazienti possono trarre dei benefici da interventi farmacologici (antivirali, corticosteroidei, immunomodulatori, integratori) e da modifiche dello stile di vita, portando in alcuni casi alla guarigione e in un discreto altro numero a miglioramenti significativi della sintomatologia.

Tra le novità della ricerca va segnalato che sono stati individuati attraverso un test genetico delle anomalie di geni legati al metabolismo muscolare, energetico ed immunologico. Tra le novità nel trattamento della CFS vi è l’ossigeno-ozonoterapia, che sembra essere il trattamento più efficace…”

Per continuare a leggere la news originale:

Fonte: “La Sindrome da fatica cronica: anche a Stanford la riconoscono come oggetto di ricerca e di congressi. E in Italia?”, Quotidiano sanità

Tratto dahttp://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=54164