Sindrome da stanchezza cronica – In fase 3 delude trattamento con rituximab
“Il trattamento dell’encefalomielite mialgica/sindrome da stanchezza cronica (ME/CFS) con rituximab non ha portato ad un miglioramento clinico di questa condizione. Questo il responso deludente che proviene da uno studio recentemente pubblicato su Annals of Internal Medicine, che non ha confermato i benefici documentati in studi precedenti di piccole dimensioni
Che cosa è l’encefalomielite mialgica/sindrome da stanchezza cronica?
La sindrome da stanchezza cronica (Chronic Fatige Syndorme, o CFS) è una malattia di eziologia sconosciuta che colpisce quasi lo 0,2% della popolazione, stando ai criteri di consenso Canadesi sulla definizione di malattia. Tra i sintomi caratteristici abbiamo malessere da sforzo, astenia, disturbi del sonno, sintomi cognitivi, ipersensibilizzazione sensitiva (dolore incluso), nonché altri sintomi legati alla funzione immunitaria. La malattia, che affligge solitamente soggetti adulti tra i 20 e i 40 anni, è associata a riduzione considerevole della qualità di vita, nonché a costi economici e sociali rilevanti, e necessita, ancora oggi, di maggiori conoscenze relative ai meccanismi patogenetici coinvolti, di miglioramento degli approcci diagnostici, e di trattamenti appropriati.
Razionale e disegno dello studio
Il razionale per la conduzione di un trial randomizzato di fase 3 era basato sulla deplezione di cellule B con rituximab (RTX) in questo setting di pazienti ha avuto origine da osservazioni precedenti di fase 2 secondo le quali alcuni pazienti con malattia di lungo corso che andavano incontro, successivamente, a neoplasie, sviluppavano una palliazione della sintomatologia ascrivibile a ME/CFS dopo chemioterapia e deplezione delle cellule B con RTX.
Di qui il nuovo studio di fase 3, attraverso il quale i ricercatori hanno voluto saggiare la correttezza dell’ipotesi secondo la quale la ME/CFS potesse essere causata, in un sottogruppo di pazienti con ME/CFS, da una disfunzione immunologica nella quale i linfociti B potevano avere un ruolo.
A tal scopo, i ricercatori hanno reclutato 151 pazienti, in prevalenza di sesso femminile (80%), reclutati da 5 centri specialistici dislocati sul territorio della Norvegia. I pazienti avevano un’età media di 37 anni ed una “anzianità” di malattia pari, in media, a otto anni.
Il trattamento consisteva in una fase di induzione (basata sulla somministrazione, ad intervalli quindicinali, di due infusioni di RTX 500 mg/m2 di area di superficie corporea, oppure di placebo) a cui faceva seguito una fase di mantenimento, che prevedeva infusioni di RTX o placebo a 3, 6, 9 e 12 mesi.
I punteggi complessivi relativi alla “fatigue” sono stati calcolati entro un range compreso tra 0 e 6 con riferimento alla “fatigue”, al malessere da sforzo, al bisogno di riposo e alla performance nello svolgimento delle normali attività quotidiane.
Gli outcome primari dello studio erano rappresentati dal tasso di risposta complessivo (punteggio relativo alla “fatigue” uguale o superiore a 4,5, mantenuto per almeno 8 o più settimane consecutive) e dalle misurazioni ripetute dei punteggi relativi alla “fatigue” a 24 mesi.
Tra gli outcome secondari vi erano, invece, le misurazioni ripetute delle performance fisiche auto-riferite a 24 mesi, le componenti del punteggio relativo al questionario SF-36 e della scala di severità della “fatigue” a 24 mesi, e le variazioni, dal basale a 18 mesi, di queste misure e del livello di attività fisica.
Risultati principali
Dopo 2 anni di follow-up, la differenza dei punteggi relativi alla “fatigue” tra i pazienti trattati con RTX e quelli trattati con placebo era pari solo a 0,02 (IC95%= -0,27, 0,31; p=0,80). Inoltre, è stata documentata una risposta al trattamento nel 26% dei pazienti trattati con RTX e, addirittura, nel 35,1% di quelli del gruppo placebo….”
Per continuare a leggere la news originale:
Fonte: “Sindrome da stanchezza cronica, delude rituximab in fase 3”, PHARMASTAR
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